Unico giocatore sempre presente in campo dopo le prime 10 giornate, conosciamo Francesco Colantoni, con le sue passioni e le sue fissazioni, che si racconta dentro e fuori dal campo
Appena qualche ora fa ha ricevuto la sua terza Scarpa d’Oro, confermando ancora una volta – se mai ce ne fosse stato bisogno – di essere uno dei giocatori più forti al mondo. Eppure c’è stato un momento in cui qualcuno voleva fargli credere che non avrebbe potuto farcela, a percorrere la strada che sognava verso il calcio che conta, a causa di una disfunzione ormonale che sembrava rallentarne la crescita. Chissà cosa direbbero, oggi, tutti quelli che hanno cercato di ostacolare Lionel Messi. Ma lui no, non si è mai perso d’animo, ha lottato per realizzare il suo sogno, ed oggi è il più forte calciatore di sempre, secondo il parere di molti. Di certo, lo è per Francesco Colantoni, terzino sinistro della Lupa Castelli Romani, che per la Pulce argentina ha una vera e propria venerazione. E se dal punto di vista tecnico i due hanno ben poco a che vedere, essendo estremamente diversi per struttura fisica, posizione in campo e (sono sicura che il nostro Cola non si offenderà) anche semplicemente per una questione di qualità, a ben guardare qualcosa che li accomuna c’è. Quella luce negli occhi quando scendono in campo, quella voglia di dare il massimo ed essere sempre i migliori qualunque sia la gara che si sta giocando, chiunque sia l’avversario che si ha di fronte. E se Messi dopo una serie incredibile di partite ufficiali disputate si è dovuto fermare suo malgrado per infortunio, Colantoni ad oggi rimane l’unico giocatore della sua squadra ad essere sempre stato presente in campo, a lottare minuto dopo minuto per conquistare i traguardi che il club del presidente Virzi si è prefissato. Perché Francesco ama vincere, in qualsiasi occasione, qualunque sia la posta in palio. Così ti capita di vederlo rimediare un cartellino giallo per proteste a causa di un fallo laterale non concesso in un’amichevole estiva, o arpionare un pallone al 94’ di una gara che sembrava ormai finita, con gli avversari appena giunti al pareggio, galoppare sulla fascia e mettere in mezzo la palla giusta per il compagno di squadra. O magari di vederlo esultare da solo dopo l’ennesimo cross perfetto in area che ha portato al gol della sua squadra, oppure imprecare per la mancata sovrapposizione del compagno di turno. Un rompiscatole? Forse sì, ma uno di quelli che non si tira mai indietro, che potrà anche sbagliare un passaggio o una diagonale ma non uscirà mai dal campo senza aver buttato fino all’ultima goccia di sudore che ha in corpo. E allora sì, un rompiscatole, ma dal cuore grande almeno quanto i suoi polmoni; uno che nonostante la vita non sia stata sempre generosa con lui non ama il vittimismo, convinto del fatto che se il destino ti mette di fronte degli ostacoli non è piangendosi addosso che si può provare a superarli. Guardare avanti, sempre, e ripartire senza permettere a niente e nessuno di buttarti giù. Questo è, in sintesi, il Cola-pensiero, il pensiero di un uomo che fuori dal campo è esattamente come appare nel rettangolo di gioco. E che vi presentiamo in questa che più che un’intervista è stata una lunga chiacchierata informale: dagli inizi sul campetto dietro casa fino al suo esordio nei professionisti, dal tifo per il Barcellona ai tanti amici che gli ha regalato il mondo del calcio, fino ad arrivare ai suoi sogni per il futuro. Semplicemente, Francesco Colantoni.
Come ti sei avvicinato al mondo del calcio e quando è diventato qualcosa di più di un gioco?
Ho iniziato un po’ come tutti i bambini, andando a giocare nella squadra del quartiere, e a differenza di altri non ho avuto la fortuna di approdare nei settori giovanili di squadre professionistiche come Roma, Lazio o Lodigiani. Diciamo che fin da bambino ho vissuto sulla mia pelle il vero e proprio calcio dilettantistico, dal Montemario al Casalotti, insomma le squadre migliori del panorama di Roma Nord ma niente di importante. A 17 anni passai al Guidonia, che mi chiamò per fare la Juniores Nazionale, e dopo due mesi esordii in prima squadra, collezionando 18 presenze in serie D nonostante fossi sotto età. Iniziò tutto da lì, ed oggi eccoci qua.
Toglimi una curiosità: anche da bambino eri così competitivo?
Assolutamente sì (ride, ndr)! È un lato del mio carattere, e per come la vedo io è una dote che se coltivata nella maniera giusta è perfino positiva perché ti porta a migliorarti, a cercare di essere il migliore in campo. Non sempre ci riesci, ma avere quell’obiettivo è un primo passo sicuramente importante. Lo ammetto, a volte questa competitività può trasformarsi in un difetto, perché come si dice a Roma sono un vero e proprio rosicone, ma in linea generale la considero un pregio. Non mi piace perdere, nel calcio come nella vita, e qualunque cosa io faccia, cerco di farla nel migliore dei modi possibili.
Quanto ti danno fastidio, visto questo lato del tuo carattere, i giocatori che in campo non danno il massimo?
È la cosa che odio di più. Mi rendo conto che a volte nel mio rapporto con i compagni sono un po’ rompiscatole, ma lo sono solamente quando vedo degli atteggiamenti non positivi. Io so di essere il primo a compiere errori durante la partita, ma ci sta. Non mi vedrai mai riprendere un compagno che ha sbagliato un passaggio o un’azione, ma mi imbestialisco quando vedo qualcuno che non dà il cento per cento, pur avendone le possibilità. Ne ho incontrati tanti, anche ad altri livelli, e mi è capitato spesso di scontrarmi con giocatori simili, soprattutto quando fingono di impegnarsi e dare il massimo pur non facendolo.
Qualche anno fa nel panorama del calcio laziale eri considerato uno dei giocatori più promettenti, e in molti si sarebbero aspettati di vederti calcare palcoscenici ben più importanti. Oggi, invece, ti vediamo giocare in Eccellenza, con l’umiltà di un ragazzino e la voglia di un veterano… Rimpianti?
Quello che ho raggiunto è quello che mi sono meritato, a seguito delle esperienze vissute e di quello che la vita mi ha riservato. Nel percorso calcistico di ognuno di noi le strade possono essere tante, ed è vero che probabilmente in alcuni momenti ho avuto delle opportunità importanti che forse non sono stato bravo a sfruttare nella maniera migliore. C’è da dire però che non sputo mai nel piatto in cui mangio, e sono contentissimo di quello che sto facendo oggi. Quando vado ad allenarmi, lo faccio sempre con il massimo entusiasmo: è così in Eccellenza, ed era così quando giocavo in C1. Fondamentalmente sono malato di calcio, e per me avere la possibilità di fare questo lavoro è straordinario, quindi non ho grossi rimpianti anche perché non mi piace la gente che si piange addosso. Spesso capita di sentire dei giocatori che si lamentano del fatto che avrebbero potuto fare chissà cosa perché hanno esordito in serie A, e li senti raccontare che avevano la strada spianata ma poi un infortunio, un procuratore incapace, un giocatore meno bravo di loro ma raccomandato, gli hanno rovinato la carriera. Io ne avrei di cose da dire, ma le tengo per me, e sono contento di quello che ho. A me vincere a Roccasecca al 94’ dà la stessa gioia che mi ha dato marcare Ibrahimovic: non lo dico come luogo comune ma perché è la verità, e chiunque mi vede festeggiare come un matto dopo una gara vinta può testimoniarlo!
A parte le maglie, i campionati, le categorie, le vittorie e le sconfitte, il calcio è fatto di persone. Quali sono le persone che nella tua vita sportiva hanno significato più di altre, e quali quelle che invece avresti preferito non incontrare sulla tua strada?
Devo dire che negli anni mi sono trovato bene con tutti, e con persone di vario genere. Ho instaurato ottimi rapporti con allenatori molto diversi tra loro come Pochesci, Chierico o Farris, e oggi mi trovo benissimo con Gagliarducci che ha un carattere opposto rispetto ai precedenti. Il motivo è semplice: mi piacciono le persone vere, che ti dicono le cose in faccia anche quando si tratta di critiche. Ecco perché ho un bellissimo rapporto con il presidente Virzi, come in passato l’ho avuto con il direttore Tanzi a Pomezia. Al contrario, ad Anzio credevo di aver costruito qualcosa di importante ma i fatti mi hanno portato a ricredermi. Nel mercato invernale, infatti, ho chiesto di andar via e la società mi ha dato il benestare per poi rifiutarsi di onorare i nostri accordi economici. Dopo aver giocato la mia ultima partita ho chiesto loro i miei soldi, quelli che mi spettavano e che avevo guadagnato onestamente, ma di fronte ho trovato un muro: tutti spariti, telefoni spenti, nessun segnale. Beh, per me questo significa non essere uomini. I miei soldi possono anche tenerseli, ma di una cosa sono certo: a livello umano sono loro ad aver perso.
Lanciata la frecciata, torniamo a parlare del “lato buono” del calcio. Esiste l’amicizia in questo mondo?
Direi proprio di sì, anche perché quasi tutti i migliori amici che ho li ho conosciuti negli anni, facendo questo lavoro. Forse sono stato fortunato, ma so di aver costruito dei veri rapporti di amicizia, coltivandoli giorno dopo giorno. Vuoi i nomi? Sono sicuro che ne dimenticherò qualcuno, ma posso dire che con alcuni dei miei compagni del Pomezia come Costantini, Proietti, Chianelli e Fatati ci sentiamo praticamente ogni giorno. Quest’anno, poi, che per me è un po’ il proseguimento di quello passato, si stanno consolidando dei rapporti importanti come quello con Orlando Fanasca, Emanuele Mancini, il Papero Antonini, ma anche con molti giovani, senza dimenticare Carlo Baylon che giocava con me a Genzano e con il quale ancora oggi mi sento spessissimo. Insomma sì, io ci credo alle amicizie nel calcio, perché come in ogni ambiente lavorativo è vero che si possono creare dei problemi ma è altrettanto vero che spesso nascono rapporti veri e sinceri.
Quando non sei al campo, cosa ti piace fare?
Sono un grande appassionato di sport, e mi piace guardare qualsiasi tipo di partita o incontro in tv, di calcio ma non solo. Sono malato, non c’è un altro termine per definirmi, e la mia ragazza lo sa bene! Ovviamente non mi limito a guardarlo, ma lo pratico di frequente, anche in compagnia di Loris Traditi con cui spesso mi capita di giocare a tennis. Per il resto, non sono un tipo da “serate”, non amo particolarmente i locali o le discoteche, e non sono molto mondano. Mi piace divertirmi ma senza eccessi, amo la musica e ho una passione particolare per Fabrizio Moro.
Nerazzurro di nascita, blaugrana per passione. Oggi chi ha la meglio nel tuo cuore, l’Inter o il Barca?
Sono interista per eredità familiare, perché mia madre e mio padre tifavano entrambi per i nerazzurri. Il 5 maggio ero all’Olimpico a piangere in tribuna, convinto fino al 95’ che sarebbe ancora potuta finire 4-5… Con il tempo, si sa, giocando in prima squadra perdi un po’ l’assiduità, molte partite non puoi vederle perché gli orari coincidono con quelli in cui sei in campo, e diventi un tifoso meno accanito. Poi ti trovi a guardare il calcio straniero, e a quel punto come fai a non innamorarti del Barcellona? La mia passione per questa squadra nasce ai tempi di Guardiola, ricordo una gara contro il Real Madrid vinta 5-0 che ho vissuto per 90 minuti in piedi sul letto in estasi totale. Poi è arrivato Leo Messi… Che per me è un marziano. Io sono innamorato di questo giocatore, è più forte di me, credo veramente che venga da un altro pianeta!
Toglimi una curiosità: in occasione della sfida di Champions League del 2010 tra Inter e Barcellona per chi hai tifato?
Ho tifato Inter (lo dice quasi sconsolato, come se si sentisse in colpa, ndr), e non era facile, mi sono anche un po’ vergognato! C’è da dire che quell’Inter era bellissima, e rispecchiava il mio carattere: era evidente la voglia di lottare anche nei momenti più difficili, anche quando ti accorgi che l’avversario è troppo più forte di te. In quel caso gli spagnoli hanno perso, è vero, ma da quel momento hanno dimostrato milioni di volte che sono dei marziani. Oggi, ti dico la verità, se ci fosse una partita tra il Barcellona e l’ultima del campionato spagnolo e in contemporanea il derby tra Inter e Milan io non avrei dubbi e guarderei il Barca… Perché sono malato, te l’ho detto, e per me è una vera gioia guardarli giocare.
In precedenza hai accennato ad alcune esperienze importanti che hai avuto modo di vivere nella tua carriera. Probabilmente quella a Pavia, squadra con la quale hai esordito in serie C1, avrebbe potuto rappresentare un trampolino di lancio diverso per te, ma al di là di come è finita immagino che ti abbia segnato.
La mia esperienza a Pavia è arrivata in un periodo particolare della mia vita, del quale non mi piace molto parlare. Avevo perso mio padre da qualche anno, ed era un momento delicato per allontanarsi da casa. Mia mamma stava meglio, ma non ancora bene, mia sorella era piccola e io sentivo di dover stare con loro. Non voglio assolutamente usare questa situazione come una scusante, né tantomeno cercare delle giustificazioni, ma non c’è dubbio che per un ragazzino non è facile allontanarsi dalla propria famiglia quando si pensa di essere per loro un punto di riferimento. L’esperienza a Pavia per me ha significato molto, penso di essere maturato parecchio anche se in realtà ero cresciuto in fretta qualche anno prima, mio malgrado. Quello è stato un momento importante a livello di crescita umana, forse un po’ meno dal punto di vista calcistico perché so di non averlo sfruttato come avrei dovuto… Ma è una questione di priorità, e non è facile stare lontano da casa quando senti che qualcuno ha bisogno di te, che dovresti fare qualcosa e che il contributo che stai dando non è quello che vorresti dare. Purtroppo non riesco sempre a dimostrare quello che sento, soprattutto nel rapporto con mia madre, e in quel momento l’unico modo che avevo per farle capire che c’ero era starle vicino.
So che non ti piace parlarne, ma non posso evitare di chiedertelo. Quanto ti ha cambiato la morte di tuo padre?
Tanto, sicuramente mi ha fatto crescere in fretta, e gran parte di quello che sono è partito proprio da lì. Ti racconto un aneddoto, che mi aiuta a risponderti più di tante parole. La sera in cui è morto mio padre, eravamo con tutta la famiglia a casa di mio zio: 24 persone con lo sguardo fisso nel vuoto, tra cui mia sorella che aveva appena 5 anni e nemmeno capiva cosa fosse successo. In questo assordante silenzio, io ero seduto a tavola a mangiare da solo, mi guardavo intorno e mi chiedevo perché non venissero anche loro. Non perché fossi matto, ma perché la mia testa in quel momento mi aveva già detto che bisognava ripartire. Avevo solo 15 anni, ma sapevo che quello era il momento di reagire e non quello di piangersi addosso. Il fatto di aver vissuto momenti così brutti nella vita mi ha aiutato ad essere quello che sono oggi, ed è per questo che i piccoli problemi li prendo per quelli che sono: la partita che perdi, la macchina rotta, le questioni economiche, sono tutte stupidaggini risolvibili, e starsene lì a piangere non è il modo giusto per affrontarle, o per lo meno non è il modo in cui le affronto io. Ecco, questo è il lato del mio carattere che non cambierei mai.
Mamma Donatella, tua sorella Ilaria, la tua compagna di vita Tamara. Mi racconti le donne della tua vita?
Sono tutte importanti, e tutte diverse tra loro. Mia madre è una donna molto introversa, che si è sempre tenuta tutto dentro e da questo punto di vista penso che non migliorerà mai. Le voglio bene, anche se non glielo dimostro come a volte vorrei, ma penso che lo sappia. Mi è capitato pochissime volte di abbracciarla, ma purtroppo sono fatto così… Da anni, ogni domenica lei viene a vedere le mie partite. In qualsiasi campo si giochi, io la cerco con lo sguardo. Credimi, mi è capitato di trovarla anche in tribune con mille persone. Quando la vedo, ci facciamo un gesto. È un semplice saluto, ma per me è importante, perché significa che ci siamo, l’una per l’altro. È un contatto, seppur ideale, ma fondamentale. La verità è che dare il massimo davanti ai suoi occhi è l’unica cosa che so fare per dimostrarle che le voglio bene. Ilaria, mia sorella, è cresciuta tanto negli ultimi anni, è diventata più donna e sono fiero di lei e del modo in cui lo ha fatto. Nel mio piccolo ho cercato di farle da padre , ma in una maniera particolare. Io osservo tutto, ma non mi piace discutere, farle una ramanzina o sgridarla per cercare una soluzione. Preferisco dire una sola frase, e lei ormai la capisce al volo. So che Ilaria è molto legata a me, anche se il nostro rapporto non è fatto di milioni di gesti di affetto, telefonate, baci o abbracci. Qualche giorno fa si è tatuata la frase di una canzone di Fabrizio Moro, “stringi le mie mani fino all’infinito”, e avrebbe voluto che lo facessi anche io. Non l’ho fatto, perché i tatuaggi non mi piacciono, ma sapere che lei ha idealmente condiviso con me questo gesto significa tanto. Oggi quando la guardo sorrido e so che se è cresciuta così bene il merito è soprattutto di mia madre, ma in piccola parte mi piace pensare che sia un po’ anche il mio… E poi c’è Tamara… Ormai sono 7 anni e mezzo che siamo insieme, è stata la prima e unica ragazza seria che ho avuto nella mia vita e che probabilmente avrò. Lei rispetto a mia madre e mia sorella è la più forte a livello caratteriale, anche se come ogni donna ha le sue debolezze. Probabilmente è per questo che ci completiamo e che stiamo così bene insieme. La nostra storia da sei mesi a questa parte ha compiuto un passo in avanti, perché abbiamo deciso di andare a convivere. Devo dire che lei non era molto convinta, perché è una sostenitrice convinta del matrimonio, ma per come la vedo io è necessario provare a vivere insieme per capire se le cose possono funzionare davvero. Beh, a distanza di qualche mese posso dire che la convivenza ci ha dato tanto, e che ora so per certo che il nostro futuro è insieme. Tamara è una splendida donna di casa, e la vita con lei è realmente quello che desidero. Oggi il mio sogno è quello di creare una famiglia, essere felice e rendere felice lei. Se penso a come saremo tra qualche anno, ci immagino sposati e con due bambini, un maschio e una femmina. Devo dire che da qualche mese è nato il mio nipotino Mattia, e forse per la prima volta mi è capitato di prendere un bimbo tra le braccia. Beh, da quell’istante ho desiderato fortemente di avere un figlio mio, e non posso che augurarmi che sia stupendo come lui…
di Guendalina Fortu
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