Riprendiamo la bellissima intervista di Andrea Dirix di Sportinoro a Glauco Cozzi, uno degli allenatori più rappresentativi del calcio laziale, che dopo tante battaglie combattute in campo ora non si tira indietro nemmeno fuori dal campo.
“Le discese ardite e le risalite”.
Così cantava Lucio Battisti nel 1972.
Un anno importante, perché lì, di fatto, comincia la storia che stiamo per raccontarvi.
Lo faremo attraverso le parole di un uomo che dalla vita ha avuto tanto, ma dalla quale ha anche compreso che, alla conta dei fatti, tutto ciò che si è conquistato non significa poi molto.
Il nostro interlocutore ha la voce bassa, arrochita, non per sua scelta, ma per dannata bizza degli eventi.
In questa storia, però, non vince chi urla di più.
In questa storia a contare non sono i toni, ma le tonalità.
A contare sono le sfumature che si percepiscono attraverso il racconto di trionfi e di dolori, vissuti non con enfasi, né tantomeno per il desiderio di costruirsi un nido di commiserazione.
Glauco Cozzi ne parla e lo fa di getto.
Ne scaturisce una conversazione sincera, talvolta amara ma, vivaddio, sempre costruttiva.
Lo ascolti, rifletti e vorresti che questa chiacchierata di mezza sera non finisse mai, che il tempo s’inceppasse e poi ripartisse.
Alla fine, speri di aver colto il succo.
L’essenza, magari no, quella sarebbe chiedere troppo.
Lo ospiteremo domenica pomeriggio negli studi di Rete Oro, mister Glauco Cozzi, e per noi sarà un gran vanto, perché ci darà modo di sentirne altre di parole così piene di calcio e di Vita.
Sì, con la maiuscola, perché nessuno scoglio può arginare il mare.
Mister, cominciamola dall’inizio questa storia.
“Venni acquistato dalla Lazio all’età di quindici anni.
Era il 1966 e feci tutta la trafila dagli Allievi alla Primavera, di cui divenni il capitano ed il giocatore più rappresentativo.
Vivevo in un appartamento con alcuni miei compagni di squadra.
Tempi belli, ma anche difficili.
Poi il sogno di arrivare in prima squadra…”.
Stava per nascere la grande Lazio di Tommaso Maestrelli.
“Ero pronto per andare in ritiro, quando la società acquista dall’Almas quel grande giocatore che era Vincenzo D’Amico”.
Lì cambia la storia calcistica di Glauco Cozzi.
“Fui girato proprio all’Almas, in Serie C, e successivamente al Civitavecchia.
Mi feci le ossa e poi venni preso dal Verona nel 1972″.
Un amore, quello tra lei ed il club gialloblu, durato otto anni.
“Feci il mio esordio con quella maglia la Vigilia di Natale di quell’anno, marcando quel mostro di Gigi Riva”.
Mica male come battesimo del fuoco.
“Finì 1-1, un ricordo bellissimo, come ce ne furono mille altri.
Penso al 5-0 rifilato al Milan, con il sottoscritto che marcava Chiarugi.
Pagine bellissime, amicizia vere con gente come Osvaldo Bagnoli o Ciccio Mascetti.
Verona è stata la mia vita.
Pensi che un anno e mezzo fa, in occasione del ritorno in A della squadra, la società invitò anche me tra tanti suoi ex calciatori per una festa che durò cinque giorni.
Il mio cuore è lì”.
Dopo è arrivata la Sambenedettese in Serie B.
“Ci sono rimasto due anni, poi mi sono rotto la tibia ed il perone.
A quei tempi era una specie di sentenza, non era come oggi.
Fu un trauma.
Ero sposato ed avevo anche dei figli piccoli.
Allora mi rialzo e riparto dal Banco di Roma, Serie C, ma con un posto di lavoro assicurato.
Dopo due anni in quella società, finisco la carriera in Promozione”.
Da lì ad intraprendere la carriera da allenatore il passo è stato breve, immagino.
“Mica tanto, anzi è stato quasi casuale.
Ero tornato a Roma ed abitavo a Montesacro.
Era il periodo pre-pasquale ed il parroco venne a benedire la nostra casa.
Aveva a cuore il Tirreno, la squadra del quartiere che aveva qualche difficoltà, e mi disse: “Signor Glauco, perché non viene a darci una mano?”.
Iniziò tutto così, quasi per scherzo, con quella squadra di Giovanissimi che, da ultima in classifica, chiuse al secondo posto alle spalle della Lodigiani.
Fui il primo a far salire il portiere in occasione dei calci d’angolo.
All’epoca ne parlarono anche i giornali”.
Un inizio incoraggiante.
“Mi piaceva tanto il settore giovanile.
Credo che tutti coloro che sognano di fare l’allenatore debbano farsi le ossa lì.
La trafila è necessaria, tutto il resto conta zero.
L’esempio di Inzaghi è sotto gli occhi di tutti, credo…”.
Dopo alcuni campionati importanti con gli Allievi dell’Urbetevere è arrivato l’Anzio.
“Mi chiamò il papà di Ernesto Salvini, l’attuale direttore generale del Frosinone.
Arrivammo secondi alle spalle del Sora”.
Se lei dovesse descrivere il suo modo di interpretare la professione di allenatore, quali parole utilizzerebbe?
“L’allenatore è una persona sola contro tutti.
Quando sei giocatore è più facile: sei in un gruppo, sei protetto.
L’allenatore deve assumersi responsabilità anche più grandi di lui.
Io ho avuto la fortuna di fare cose bellissime tra i dilettanti, trasferendo la mia esperienza di ex professionista.
Il mio vanto è di essere riuscito a farle, lavorando sempre col niente.
Gli altri spendevano cifre astronomiche, quattrocento/cinquecento milioni, e noi vincevamo spendendone sessanta”.
Luoghi dell’anima: il suo è Fiumicino?
“C’è stato un periodo in cui la gente avrebbe voluto non dico che diventassi sindaco, ma quantomeno assessore.
Abbiamo vissuto momenti strabilianti, indimenticabili.
Duemila persone veniva a vederci contro squadre che si chiamavano Teramo e Ternana.
Ho dato tutto me stesso e non ho rimpianti, anche se in quegli anni ho rinunciato anche a cifre importantissime.
Sono rimasto a Fiumicino, perché quella terra all’epoca rappresentava la povertà, era schiacciata da due realtà come Ostia e Fregene.
Più di tutto, però, ho preferito rimanere fedele a me stesso ed ai miei valori, lottando contro una visione sbagliata del calcio e della vita.
Le scorciatoie non mi sono mai piaciute e la meritocrazia non dovrebbe mai venire sopraffatta da altri sistemi.
Io credo nel sacrificio, perché nella vita bisogna sempre lottare”.
Ora ci sono due realtà calcistiche a Fiumicino.
Le segue?
“Certo che le seguo.
Del Fiumicino mi permetta di spendere una parola su Massimo Carsetti, un uomo straordinario che ha permesso al club di vivere annate eccezionali attraverso investimenti oculati.
Ora si sono concentrati principalmente sul miglioramento delle infrastrutture, speriamo possano presto tornare su.
Lo Sporting Città di Fiumicino, di contro, sta seguendo una filosofia intelligente: posti di lavoro per i calciatori.
Dico bravo a Ferruccio Mariani ed a Raffaele Scudieri.
Raffaele è cresciuto con me, sa?
E’ bravo e furbo.
Raffaele ha saputo rubare con l’occhio ed è diventato vecchio prima del tempo… (ride)“.
Può vincere il campionato?
“Loro sanno qual è il problema: il campo.
Troppo largo e dispersivo per far arrivare il calore del pubblico.
La mia speranza è che riescano a farcela in questo rush finale con quattro o cinque concorrenti, anche se non sarà per niente facile”.
Però hanno una freccia in più: Di Fiandra.
Ha presente?
“Ciro (sorride)…
Pensare che a crescerlo fu proprio Scudieri, quando era alla guida degli Esordienti a Fiumicino.
Andò all’Astrea, mi pare, e poi a Ladispoli, però lì non lo consideravano.
Allora lo richiamai alla base.
Tutti dicevano che era un ciccione, ma lui fece venticinque gol e zittì tutti.
Un ragazzo splendido che avrebbe meritato di andare in Serie C.
Lo voleva il Messina, ma lui preferì restare per dare una mano alla sua famiglia”.
Lei è una sorta di Treccani del nostro calcio.
Ci regala un aneddoto?
“Mi viene in mente l’anno di Fregene in Serie D.
Calce aveva appena vinto il campionato, ma a causa di qualche problema non si accorda per restare e chiamano me.
Facciamo la prima partita di coppa, perdiamo e mi mandano via.
A fine girone d’andata, con la squadra ultima con sette punti, la società mi richiama, ventilando però l’intenzione di mandar via tutti i giocatori.
Tra questi c’era anche il giovane Stefano Antonelli, che all’epoca prendeva solo un modesto rimborso spese.
Io chiedo alla dirigenza di confermare quel ragazzo.
Volete sapere come andò a finire?
Nel girone di ritorno facemmo nove vittorie consecutive e centrammo la salvezza.
Antonelli, che doveva esser mandato via, sigla quindici reti e finisce al Grosseto, guadagnandosi un bell’ingaggio e facendo guadagnare anche una bella somma allo stesso Fregene”.
Si direbbe una storia a lieto fine.
“Non tanto, purtroppo.
Io vengo riconfermato per la stagione successiva, però la società non ci riconosce il premio-salvezza che avevamo pattuito e decide di destinare quella somma alla costruzione di un campo di calcetto”.
E lei come reagì?
“Alle porte della stagione successiva, il club organizza una bella festa in un locale piuttosto famoso di Fregene e durante la serata mi chiedono di prendere il microfono e dire qualcosa.
Io ringraziai tutti e dissi che me ne sarei andato”.
Un bel colpo di teatro.
“Non posso farci nulla, io sono fatto così”.
Cambiamo argomento.
Molti sostengono che l’abbassamento del livello tecnico nei nostri campionati dipenda, almeno in parte, da un problema generazionale.
Si dice: prima i giocatori venivano su dalla strada, mentre ora la situazione è radicalmente cambiata.
“Mah, di queste cose se ne parlava anche ai miei tempi.
La mia idea è che oggi il calcio vada troppo di corsa e lasci sempre meno tempo al naturale apprendimento.
Torno a ripeterlo: con le scorciatoie non vai da nessuna parte.
Ogni buona ricetta ha i suoi giusti ingredienti ed alla base della ricetta-calcio c’è il sacrificio.
Senza quello i risultati non li ottieni.
Ancora oggi che sono tornato al settore giovanile allenando la Boreale, in molti mi domandano perché ancora mi ostini a lavorare con tanto zelo.
Beh, io rispondo che sono quelli che lo zelo non ce lo mettono a sbagliare.
Io rimango un ottimista e penso sempre positivo, anche se non capisco tante cose…”.
Me ne dica una.
“Vogliamo parlare dei direttori sportivi?
Di fatto, non esistono più.
Ormai è un ruolo che viene assegnato dai presidenti per amicizia e questo crea ulteriori problemi.
Così non si va da nessuna parte.
Spero che un giorno il calcio possa rinascere dai settori giovanili”.
La vita l’ha messa di fronte a prove difficilissime.
Se la sente di parlarne?
“E’ stato un lungo cammino il mio.
Ora è passato, però i primi tempi sono stati duri.
Per quarantacinque giorni di fatto non ho dormito e mi era vietato di coricarmi a letto.
Avevo paura di non farcela, ma ne sono uscito, perché sentivo che quella era la mia vita e non volevo che mi sfuggisse.
Non ho trovato una vera e propria medicina per il male che avevo, però Anthony Robbins con i suoi scritti ed il suo pensiero mi ha salvato la vita non solo durante la malattia, ma anche dopo.
Grazie a lui sono riuscito ad ancorarmi ai miei valori, riuscendo a relazionarmi meglio con gli altri.
Sono contento che ora Muccino abbia preso spunto dalla sua figura per il suo nuovo film”.
Cosa le ha insegnato Robbins?
“Lui sostiene che bisogna continuare ad essere se stessi, bussando però alla porta degli altri, aprendosi, ponendo e ponendosi delle domande.
Come dicevo prima, io ho avuto la forza di riuscire ad ancorarmi, sono riuscito ad essere forte ed a parlare con gli altri.
Sono riuscito a rimanere me stesso, senza autocommiserarmi bensì parlando con gli altri.
Questo è stato importante”.
Vinto il male, ha deciso di cambiare orizzonte.
“Per sei anni me ne sono andato in Ciociaria, facendo quasi l’eremita e dedicandomi solo al calcio.
Sentivo l’esigenza di questo cambiamento, volevo entrare in contatto con la natura e con le persone.
Tante persone hanno bisogno di questo genere di contatto e non bisognerebbe tarpar loro le ali con chiacchiere inutili.
Queste persone andrebbero aiutate.
E poi aggiungo un’altra considerazione: l’esser stato il più grande di tutti, l’aver avuto chissà quale potere non conta nulla.
Come dice Robbins, l’uomo è solo l’insieme di tante cose che verranno.
Ed io sono d’accordo con lui”.
E noi con lei, caro, grande, mister Cozzi.
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