RIO DE JANEIRO – Una settimana a Rio e no, non facciamo i superficiali, non ho del tutto chiaro cosa stia succedendo. Qualche sensazione si. E queste vi racconto. Dopo alcune visite a stretto giro e un salto di 7 anni senza farmi vedere da queste parti ho trovato la città cambiata nella sostanza ma non nella forma. Fuori è sempre la cidade maravilhosa, tutta praia, sport, verde, luce, onde movimento. Bella, da morire. Dentro però le cose stanno diversamente. Non ci sono più i bambini affamati a vivere per strada e sulla spiaggia, si avverte chiaramente la presenza di un’ampia classe media (prima ridottissima) rappresentata graficamente dall’aumento esponenziale dei prezzi. E non sto parlando del cono da 6 euro (!) nella gelateria della via chic di Ipanema. Piuttosto del cornetto Algida da 3.3 euro. Tutto costa molto molto più caro, ed è qui che ci si avvicina al cuore della protesta di questi giorni. Perché se un chilo di pomodori è arrivato a a 10 reali (3.3 euro), lo stipendio minimo, unità di misura che magari a Rio si applica poco ma che resta ancora indicativa, è da 750 reali (250 euro). Sono tanti i milleuristi locali, quelli che guadagnano 2500-3000 reali, che prima non esistevano e oggi, dopo un breve momento di gloria, stanno ricominciando a soffrire e hanno paura di perdere i piccoli privilegi accumulati. Il movimento che si è buttato in piazza non ha una guida, né moventi forti. Chi è arrivato in strada con le bandiere di partito è stato picchiato, i vessilli bruciati. Una disillusione nei confronti della politica classica molto europea. La gente non protesta per l’aumento dell’autobus quanto per il carovita che, per quello che ho potuto vedere in questa settimana, ha fatto salire i prezzi ma non i salari, portando i primi fuori portata dei secondi. Non mi azzardo a dire che si tratta di una protesta consumistica, però senz’altro c’è confusione su obiettivi e bersagli. Anche perché questo è un continente pieno di contraddizioni e problematiche complesse: chi scende in piazza a Rio o San Paolo non ha le stesse motivazioni o preoccupazioni di chi lo fa a Recife e Fortaleza. Volendo generalizzare, un p0′ come la Spagna il Brasile negli ultimi anni ha corso tanto e ora si ritrova col fiatone, e un po’ confuso. La violenza poi, di nuovo come in Europa, è appannaggio e mezzo di pochi. Ieri sera in strada c’erano quasi 300.000 persone, l’1% ha fatto (tanto) casino. C’è malumore, probabilmente perché in alto c’è chi pensa che aver ottenuto Mondiali e Olimpiadi è garanzia di successo, denaro e successo della marca Brasil mentre in basso sono tutti convinti che chiuso il circo olimpico, anno di grazia 2016, il Paese piomberà in una recessione gravissima. E forse è questo che la protesta cerca di prevenire: suonano campanelli d’allarme sperando che qualcuno ascolti e risponda, che chi governa non si celi dietro i circenses internazionali ignorando esigenze, paure e richieste do povo, il popolo.
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