di EMILIO PIERVINCENZI
Daniele Prosia è stato uno di quei calciatori border line, mezza figura al sole del professionismo, l’altra metà nella penombra dei dilettanti. Eppure, spiega, “non ho alcun rimpianto, ho fatto la vita che volevo fare, giocare al calcio e farlo da protagonista, anche se non sono arrivato sui palcoscenici importanti”. Ora ha un’altra grande occasione. Smessi gli scarpini (due anni fa), ha fatto il corso per collaboratore gestione sportiva (in pratica direttore sportivo, solo che nei dilettanti non si può chiamare così) e ora eccolo al suo primo incarico: Direttore sportivo del San Cesareo.
“Una bella opportunità – spiega Daniele al telefono – e ringrazio la società di avermela concessa. Il mio impegno sarà soprattutto quello di definire un sistema organizzativo della squadra che consente a ognuno di fare al meglio quel che può. Per esperienza diretta so che se tutto funziona, dallo staff medico a quello tecnico a quello della logistica, il giocatore che è in grado di darti 7 ti darà 8. Ecco, questo sto facendo in questi giorni”.
Ma dovrà fare anche la squadra…
“Ovvio, ma prima viene l’organizzazione. Risolto questo problema, vedremo dei giocatori in rosa chi resterà e chi no”.
Facciamo un passo indietro, Prosia. Considerata la sua carriera, consiglierebbe a un ragazzo di tentare di fare il calciatore?
“Capisco che cosa intende: Prosia è stato un mezzo giocatore, ne valeva la pena fare tanti sacrifici? Ma io sono orgoglioso di quel che ho fatto. Quando stavo al settore giovanile della Lazio capii che potevo tentare. Ho tentato e se non mi fossi rotto una caviglia stavo anche per firmare un contratto per una società di serie B. Ho fatto invece un paio d’anni in C, 13 anni in D, l’Eccellenza in finale di carriera. Ho segnato 149 reti e dio solo sa quanto mi sarebbe piaciuto arrivare a 150. No, guardi: ai ragazzi consiglio sicuramente di provare. Ma che questa non sia un’ossessione, l’ossessione di arrivare in A, ma che il calcio venga visto solo per quel che è: un’opportunità”.
La sua migliore stagione?
“Beh, quella all’Isola Liri: 17 reti e promozione in C. Indimenticabile, ancora mi viene la pelle d’oca a pensarci”.
Ma perché non ha fatto l’allenatore?
“Perché tutti mi dicevano che ero più portato alla gestione fuori dal campo che a quella dentro al campo, e io so ascoltare le persone. Credo infatti che abbiano ragione: io mi sono sempre sentito un po’ direttore sportivo. Ora il San Cesareo mi ha dato l’occasione di dimostrare quanto valgo”.